Mater Camorra: al Tin un’opera intensa e dilaniante
Dopo il successo dell’esordio (ieri sera, venerdì 12 gennaio) con un grande coinvolgimento emotivo del pubblico stasera tornerà in scena Mater Camorra. ‘O paraustiello da Squarciona scritto da Gialli Sallustro – che ne firma anche la regia – e Nicla Tirozzi al Tin, Teatro Instabile di Napoli in vico Purgatorio ad Arco 38.
In scena Nicla Tirozzi, Gianni Sallustro, Gianluca Cangiano, Tommaso Sepe, Francesca Fusaro, Stefania Vella, Carlo Paolo Sepe, Davide Vallone, Antonio Pio Del Vecchio, Enrico Annunziata, Noemi Iovino, Luigi Guerra, Salvatore Ciro Tufano, Vincenza Granato, Nancy Pia De Simone, Paola Carillo, Rosa Vanese, Maria Crispo, Roberta Porricelli, Gabriella Perillo, Rossana Romano, Chiara Esposito, Stella Romano.
Lo spettacolo attuale – dedicato alla memoria di Gaetano Montanino, guardia giurata vittima innocente di camorra – è nato da un’idea di Michele del Grosso, fondatore del Tin, e costituisce una riscrittura e una rivisitazione di Madre Courage di Bertold Brecht. L’opera originaria è ambientata tra la Polonia, la Svezia e la Germania al tempo della guerra dei Trent’anni (1618- ’48) e focalizza il periodo tra il 1624 e il 1636.
Ne è protagonista Anna con i suoi tre figli, che per affrancarsi dai morsi e dalla schiavitù del bisogno, si attacca così tanto all “roba” di verghiana memoria, come evidenzia Sallustro, da perdere di vista la sua etica, i suoi principi e il senso stesso della famiglia e degli obiettivi più autentici.
“Quella di Brecht – sottolinea il regista – è una denuncia contro la guerra, in quel caso tra protestanti e cristiani che lui aveva vissuto in prima persona, e di come sia in grado di rovinare l’essere umano“.
La riscrittura e la riattualizzazione, opera di Sallustro e Tirozzi, comincia negli anni 2000 (oggi se ne festeggia il ventennale) e ripercorre le atmosfere degli anni ’80 e ’90, fino ad arrivare ai giorni nostri, in una periferia che potrebbe essere quella ai margini della megalopoli partenopea, ma anche nascosta, come modus vivendi, tra i vicoli e le esistenze di vario genere della città.
“Quella di Brecht da cui prendiamo le mosse – evidenzia Nicla – è un’opera atemporale. Ieri come oggi l’essere umano è abitato da una parte oscura e brutale. Non a caso nessuno dei nostri personaggi riesce a riscattarsi, ma nemmeno è del tutto colpevole a livello individuale. Quella a cui noi facciamo appello, chiamando anche il pubblico a una presa di consapevolezza che porti a un impegno civico, è una responsabilità collettiva, che sola può salvarci da queste derive violente“.
Bisogna rifuggire – come ribadisce l’attrice e autrice – da una sorta di normalizzazione della violenza, che crea assuefazione e ottundimento delle coscienze e conduce indirettamente a una connivenza figlia dell’immobilismo e dell’inazione.
“Quest’opera – continua Tirozzi – è un pugno nello stomaco, un tentativo disperato di aggrapparsi a un’etica possibile. Il teatro ha la possibilità di presentare temi e territori inesplorati per ognuno di noi e dentro di noi. Io nella crudeltà riconosco una parte oacura che appartiene, in fondo, anche a me stessa. Alcune derive possono capitare a tutti, se si nasce e si cresce in un certo contesto, soprattutto se il male viene presentato come l’unica scelta possibile a cui non ci sono alternative“.
Anna – come ricorda Nicla – incarna anche un altro tema forte, quello della maternità: è una madre poco convenzionale, forte e “ingombrante”, che vorrebbe controllare tutto per difendere i propri figli, dato che conosce bene la legge della strada e la sua pericolosità, ma pecca d’ingenuità perchè crede di poter sfruttare il sistema a suo vantaggio ma rimanerne al contempo fuori. Invece la sue spire la avvolgono e la svuotano, la scarnificano.
“Anna – le fa eco Sallustro – è un personaggio talmente ingombrante da mettere giocoforza in ombra tutti gli altri e ne pagherà lo scotto. E’ capace di sentimenti viscerali, animaleschi, dalla disperazione alla tenerezza, ma non abdica mai del tutto alla razionalità, per non ritrovarsi vittima e prigioniera del bisogno e per avere la possibilità di andare avanti, imboccando una possibile via di fuga “.
L’opera è congegnata su più piani narrativi con effetti spiazzanti: alla storia di Anna e della sua famiglia – tre figli avuti da tre uomini diversi e cresciuti accanto ad altri tre – si intrecciano altre microstorie di uguale dignità e intensità.
Quella del cappellano, che lei umilia talvolta chiamandolo “fune marcia” per la sua debolezza, vile per coinvenienza, ma subdolo e che trama nell’ombra. Quello di Gaetano la prostituta, che sa sentirsi amato e accettato solo rivivendo il suo antico dolore che lo vede ridotto a oggetto e carne, annullando la sua coscienza e la sua memoria attraverso l’alcol. Quello delle donne che vendono armi, che per avere il coraggio di essere brutali devono assumere cocaina. Quella di chi – vittima di violenza – ha ripudiato l’altro da sè e può vivere un necessario piacere solo in maniera artificiale, attraverso il ricorso all’eroina.
“L’elemento dello zoomorfismo è molto forte – spiega Sallustro -. C’è chi è seduttivo come un gatto; chi agisce nascostamente come un topo. Chi è candido e puro come una colomba. Il cambio di prospettiva è che non sono gli animali ad essere brutali ,ma lo sono gli esseri umani in quanto tali. Infatti l’animalità diviene bestialità solo quando l’animale è vittima di una cattività coatta”.
Se in questo spettacolo si avvertono eco orwelliane – di quel Orwell che denuncia la disumanità degli esseri umani e i loro vizi capitali – sono intensi anche i richiami diretti e indiretti a Filumena Marturano, Napoli Milionaria, il genio immortale e senza tempo di Viviani, la Lisistrata di Aristofane e la Medea di Euripide.
Come spiegano gli autori, la tragedia greca irrompe sulla scena attraverso il carro sul quale Anna trascina la sua “roba”, trainandolo attraverso una corda che rappresenta il cordone ombelicale, sulle cui quattro facciate tufacee sono riprodotte le Matres Matutae, che si possono trovare al Museo di Capua, che sono incarnazione della Terra e della Dea Madre, ma recano in braccio i figli morti.
I 25 attori, anche in forma zoomorfa, sono sempre in scena e prendono il posto del coro greco, occupando non solo il palco di forma ottagonale, ma anche le tre balconate, in un susseguirsi di scene la cui partitura è studiata sin nei minimi dettagli e dove nulla è lasciato al caso, dai movimenti alla voce, passando per alcuni blocchi innestati ad arte che servono a sottolinere specifiche battute e a decodificare persino le intenzioni, rendendo il ritmo ancora più serrato, come evidenzia Sallustro.
“Per dare il meglio a livello attoriale – ribadisce Sallustro – è necessario conoscere la tecnica, ma anche e soprattutto superarla, rifuggendo da un manierismo lezioso e dalle trappole dell’autocompiacimento, in un impasto di mente, cuore, corpo e voce. L’opera dev’essere scomposta e poi ricomposta, amalgamandola“.
Il risultato è intenso, frutto di uno sforzo estremo, a livello fisico ed emotivo, perchè – come ricordano gli autori – solo quando si è allo stremo può davvero uscir fuori la bestialità ed è possibile, al contempo, dare davvero il meglio di sè.
Lo spettacolo con forza – come ricorda Nicla – ci richiama alla consapevolezza, rifacendoci a Gramsci, che la storia cerca di essere una buona maestra, ma trova, purtroppo, cattivi allievi.