La volpe che amava i libri di Nicola Pesce: seme di gentilezza e umiltà
Questa intervista è per me una piccola chicca, un seme prezioso che spero attecchisca, quello della gentilezza e del pensiero divergente.
La pubblico alcuni mesi dopo la mia recensione de La volpe che amava i libri e, nel frattempo, ne è anche uscita una versione illustrata per i bambini.
Forse non è un caso se, quasi per un fenomeno di sincronicità, oggi, mercoledì 28 giugno, alle 19:30 in piazza Lauro a Sorrento il suo autore, Nicola Pesce, ne presenterà il seguito, La volpe che amava le piccole cose, dialogherà ulteriormente con i suoi lettori attraverso il momento del firmacopie.
Non c’è un solo passaggio banale in quest’intervista. Nicola rifugge in ogni modo e direzione dall’autoreferenzialità: non vuole dare consigli né indicare strade possibili. Spera solo che gli esempi concreti – che si dipanano come fili da una comune radice – di gentilezza, di equilibrio, inteso come capacità di vivere e affrontare anche gli eventi più ansiogeni con calma – di amore e di tempo dedicati alla lettura si moltiplichino. E che, magari, possa, nella percezione di pochi o di molti, essere un balsamo per l’anima e uno specchio in cui vedere riflesse – senza che facciano paura – parti di sè.
C’è forza, autenticità, profondità e umiltà in quest’intervista, nelle sue parole che hanno il coraggio di raccontare secondo il proprio modo di essere e di pensare. E poi c’è la poesia, con i suoi vari volti, tutti accomunati dall’amore per una bimba dai capelli rossi.
Ora passo la parola e la penna a Nicola.
L’INTERVISTA
D. Nel tuo libro La volpe che amava i libri in qualche modo ritrovo – almeno questa è stata la mia prima impressione a pelle – la funzione pedagogica delle favole di Esopo. Qual è – se ce n’è uno – il messaggio finale?
R. Fin da piccolo ho sempre adorato gli animali, forse perché vivevo in una villa e non di rado vedevo uccellini e lucertoline. Scoprii Fedro ed Esopo solo verso i diciotto anni, il primo in latino, il secondo in una traduzione alla buona.
Mi ha sempre colpito il modo in cui loro, attraverso un breve testo, riuscissero a veicolare un insegnamento. Io, al contrario, non ho mai voluto mettere alcun messaggio nei miei libri. Meno che mai un messaggio o un intento pedagogico. Ho orrore (e i bambini ne avrebbero orrore) al solo sentire una cosa del genere.
Forse una volta le persone erano più aperte ad ascoltare un consiglio, oggi sono sicuro che se io volessi dare insegnamenti nessuno più vorrebbe leggere i miei libri. Credo poi che chiunque voglia mettere un messaggio in un libro sia un po’ presuntuoso. Chi sono io per dare un insegnamento? Stamattina sono uscito di casa e mi sono scordato le chiavi sul tavolo, ho dovuto chiamare una persona che ha una copia delle chiavi e si è fatta 100 km per venirmi ad aprire: chi sono io – l’ho pensato distintamente in quel momento – per voler insegnare qualcosa?
Forse chi vuole “lanciare i messaggi” dovrebbe scrivere un saggio, e scrivere in copertina, bello grande: “Attenzione, questo libro ha una funzione pedagogica”.
Io credo e spero di aver involontariamente invertito le cose: non scrivo affinché le persone siano buone. Io mi impegno ad essere buono, in prima persona. Tutti i giorni. A fare un sorriso in più, a tenere una porta aperta, ad aiutare qualcuno. Poi dopo, siccome sono buono e tutto il mio essere è intriso di questa cosa, allora quando vado a scrivere… escono fuori parole buone.
Quindi: assolutamente non c’è nessun messaggio tra le mie righe. Lo avrei scritto chiaro e tondo se ci fosse stato. C’è un uomo gentile.
D. Quali parti di te rappresentano i vari protagonisti?
R. Allo stesso modo, di solito evito come la peste di mettere parti di me nei personaggi dei miei libri, ma questa volta ci hai visto giusto: i personaggi sono tutti un aspetto del mio essere interiore.
Ahimè, la volpe che amava più i libri che la vita è una parte di me sempre presente. I libri mi hanno ammaliato fin da piccolo, con loro ho passato giorni e notti. Li considero veri e propri amici. Più difficile, almeno nella prima parte della mia vita, era vivere, avere a che fare con gli altri. Per cui la volpe rappresenta la mia parte più introversa.
Quando ho iniziato a scrivere volevo solo parlare di una volpe chiusa in una tana. Mai mi sarei aspettato che sarebbe andato a bussare un topolino. Era una parte di me che mi diceva: aspetta, non sei solo introverso, tu sei anche dolce.
E dopo troppa dolcezza mi sono sentito troppo smielato ed ha bussato alla tana un corvo che mi ha detto: aspetta, non sei solo dolce, hai anche molta rabbia dentro di te.
E così queste parti di me, nel corso di un lungo inverno, hanno dovuto riconoscersi l’un l’altra, accettare la reciproca esistenza e imparare a convivere e, dopo, a vivere davvero.
D. Nel tuo libro c’è l’amore per la Russia, per i suoi usi e costumi: da dove nasce?
R. Credo che amassi mio padre alla perdizione, e credo che lui avesse frainteso la Russia. Era nato in un’epoca in cui l’America allettava tutti, e papà si era schierato con tutte le sue forze. Così giunse quasi a vietarmi certi libroni rossi che avevamo in casa: Dostoevskij. Non so dire, tutti gli altri libri che avevamo in casa (non molti se escludiamo le appariscenti enciclopedie) mi sembravano frivoli. Quando vedevo questi libroni invece pensavo: ma che diavolo ci sarà scritto dentro!?
Così io iniziai a leggerli per capire come mai papà li odiasse e vi scoprii un mondo meraviglioso, una lingua forte come un dialetto.
C’era un Tolstoj che voleva vivere come papà avrebbe voluto, sereno, in una azienda o un bosco, con una lunga barba e la famiglia intorno. C’era un Gogol che raccontava viaggi e peripezie e gente strana, che papà stesso aveva vissuto nel corso della sua vita.
C’era un Dostoevskij che parlava di vite povere, che mio padre aveva sentito sulla sua pelle, di sentimenti brucianti e violenti, di persone che vogliono tutto o niente, come era mio padre.
Ora me la sento di dire che papà aveva un cuore russo e non lo sapeva. Amare le piccole cose, affrontare le difficoltà della vita insieme. Oscillare sempre fra il tutto e il niente, fra il santo e il peccatore.
D. La volpe si muove a volte tra malinconie, rimpianti e rimorsi. E’ possibile, e come, fare pace con il proprio passato per proiettarsi nel futuro?
R. Beh, io non lo so se è possibile. Ahimè, come non ho messaggi, non ho soluzioni. E se qualcuno avesse le soluzioni, scapperei via da lui a gambe levate perché sarebbe un ciarlatano. Io sono una barchetta di carta che attraversa il mare della vita. Talvolta c’è tempesta, talvolta una lieve brezza e un giorno di sole. Non ho sentenze, soluzioni, slogan, diete miracolose, trucchi per arricchirsi. La vita passa attraverso di me e io la scrivo a penna su dei fogli. Poi le persone li leggono e ognuno dentro di sé prova qualcosa.
Devo dire che mi scrivono sempre più persone per dirmi che i miei libri li hanno aiutati in un periodo difficile. Ne sono felice. Credo che il segreto sia proprio di non avere la presunzione di dare indicazioni. Io metto tutto me stesso in un libro, ci metto il sangue. Poi, siccome siamo tutti umani, meno buffoneria ci metto, più sincerità, più le persone riescono a rispecchiarsi nelle mie parole, che sono le loro parole. Io non vendo biscotti: mi dai un euro e io ti dico che devi fare della tua vita. Io cerco solo di spingere le persone a stare più calme, a essere più gentili e a leggere un libro in più.
D. Spesso, anche nel fiato di Edith, il personaggio chiave è una bambina dai capelli rossi. C’è un particolare simbolismo o una continuità narrativa?
R. Non tanto un simbolismo quanto una realtà: io sono un bambino pieno di paure e incertezze. Solo di una cosa sono sicuro: amo una bambina dai capelli rossi.
D. Quanto è importante il rapporto sociale con i tuoi lettori attuali e potenziali?
R. Questa è una bella domanda, perché la risposta è vasta. Io ho iniziato a praticare i social quasi con fastidio. Mi dicevo: se vuoi che leggano i tuoi libri devi sottoporti alle forche caudine dei social. Poi piano piano vedevo dei nomi che ricorrevano nei commenti, e sono nate delle amicizie. Amicizie che non definirei “superficiali” perché secondo me sono profonde, solo che sui social non hanno il tempo di sbocciare, un buon vino che non ha il tempo di prendere aria. Sono come dei semini di alberi molto grandi. E io guardo sempre cosa dicano Franca, Giovanna e così via (per privacy non dico i cognomi). Sono come una guida. Non sempre ovviamente mi dirigo dove i loro commenti mi spingerebbero, ma li ascolto volentieri. Mi fanno luce, ecco. La strada che devo fare la decido io, ma se loro non stessero lì ad illuminarmela non avrei la possibilità di trovarla.
Questo topolino, questo ragazzino rifiutato da tutti, ha trovato nei suoi lettori una grande famiglia.