La voce a te dovuta: al Serra un grido che squarcia il silenzio
Lo spettacolo La Voce a te dovuta – con i testi e la drammaturgia di Sharon Amato e per la regia di Ettore Nigro – è ispirato a una frase emblematica, tratta da un’intensa poesia di Pedro Salinas.
L’appuntamento che si rinnova è al teatro Serra stasera, sabato 1 marzo alle 21:00, e domani, domenica 2 marzo alle 18:00.
In questo spazio rappresentazionale simbolico condiviso incontriamo una voce che emerge dall’abisso del silenzio e della disperazione e che ha il coraggio di riconoscere e chiamare la violenza per quello che è: un abominio che è nascosto così bene nelle pieghe della quotidianità da venire troppo spesso normalizzato, assumendo i tardivi connotati di una tragedia annunciata.
Questo dialogo arriva in sordina, ma ha gli effetti di uno tsunami emotivo.
Lo stesso che affida a un’espressione dolente; a sguardi persi nel vuoto; a un dialogo che diviene monologo interiore o a una lacrima che viene asciugata furtivamente il compito di restituire la voce a chi si era autocensurata per paura o per vergogna e a chi l’ha persa per una volontà feroce imposta da altri.
“In questo spettacolo si affronta un tema molto delicato e per molti versi scivoloso – ribadiscono le interpreti Anna e Clara Bocchino – È un testo che ricorre alla potenza del teatro inteso come rito collettivo che catapulta lo spettatore in un momento specifico e contingente. La condivisione nello stesso momento e nel medesimo spazio rende reale e presente la vicenda e annulla, o quantomeno riduce, la distanza che è stata messa, per rifiuto o per paura, tra sé e ciò che accade sotto i propri occhi “.
A questo, si aggiunge il controcanto del regista e della drammaturga: “In verità è un tema che è entrato dalla finestra non appena abbiamo aperto la porta della riflessione sulla violenza. Volevamo concentrarci sugli aspetti sedimentati e cristallizzati nelle forme di pensiero ‘comune’ e quindi eccoci qua”.
Un crollo della quarta parete che pone lo spettatore “di faccia alla questione trattata”, che non è più un oggetto di studio o una mera faccenda altrui, cui si è estranei o osservatori sfuggenti e distratti.
” Una prima piccola, grande vittoria che ci è stata testimoniata – continuano le interpreti – è che molti non riescono più a voltarsi dall’altra parte e capiscono che è arrivato il momento di assumere un ruolo attivo, ripudiando una visione da spettatore passivo della vita degli altri”.
Secondo un’illuminata e illuminante intuizione registica e drammaturgica di Sharon e Ettore la pièce nasce dal richiamo a un esperimento reale operato nell’ambito del regno animale, in grado di mantenere uno sguardo da equilibrista.
Un equilibrio dinamico tra un processo di immedesimazione prospettica ed un distanziamento che mitiga il desiderio di fuga e riesce – in maniera quasi paradossale – a inchiodare sguardo e orecchie.
Un incontro improbabile ma possibile tra la razionalità scientifica e la bellezza disarmante della poesia. Un ossimoro primigenio che diviene rispecchiamento.
Siamo in presenza di due identità gemelle ma distinte – in cui però una diventa totem alla memoria e eredità vivente dell’altra, per sua precisa volontà o spinta dal senso di colpa per non aver saputo ascoltare in assenza di giudizio, capire e intervenire tempestivamente – o a due istanze complementari che si agitano all’interno dello stesso personaggio.
“C’è un dissidio vero e proprio – evidenziano Sharon e Ettore – poiché appena ci si appella al sentimento di giustizia entrano in campo le famose opinioni a cui tutti siamo soggetti, fermo restando che i limiti dovrebbero essere colti molto prima di una condizione di ineluttabilità. Abbiamo scelto la costruzione corale, perché volevamo concentrarci sull’aspetto della pluralità. Da qui il lavoro drammaturgico è stato lungo, pieno di raccolta di storie e di scavo interiore. Abbiamo aperto le orecchie e abbiamo cercato di portare alla luce le voci che risuonavano distanti e vicine da noi.
I personaggi sono frutto di studi e di analisi approfonditi,
“Chloe/Clara – evidenzia Clara – è il contraltare di Anna/Nina. È la voce della sua coscienza che mette in dubbio alcune convinzioni della sorella. È uno spirito più riflessivo che cerca di calmierare la passione e l’idealismo di Nina, invitandola a stare con i piedi per terra nella consapevolezza e in contatto con la realtà“.
Richiamando le parole delle protagoniste è però anche colei che rimane congelata e intrappolata dal senso di colpa.
Nina/Anna è invece è una sognatrice, un’ idealista che crede davvero nella possibilità di cambiare le cose attraverso la parola, viatico di un ascolto attivo in assenza di giudizio.
È anche profondamente arrabbiata – innanzitutto verso sé stessa – come viene ribadito da Anna, che le conferisce carne e sangue, per essere diventata una mendicante di amore, per non aver saputo riconoscere in tempo la tragedia che si stava consumando nella sua vita e per aver creduto redimibile chi non voleva cambiare.
“Lei – ribadisce Anna – crede davvero che la parola possa essere baluardo contro la sterilizzazione e l’inaridimento dei rapporti umani e abbia la capacità di allertare e risvegliare le coscienze addormentate, rieducandole”.
Il pathos che si respira in scena e le scelte drammaturgiche rendono ancora più forte il nodo drammatico.
Una continua provocazione a una presa di consapevolezza che è frutto di un lavoro di squadra e di una co – costruzione collettiva.
Un invito, richiamando le avvertite parole di Chiara, a imparare dall’esperienza per non dimenticare di dare ascolto alla propria voce interiore.
Uno spettacolo coraggioso e potente che cerca di affrontare quello che spesso appare indicibile, senza cadere nella retorica, dribblando il rischio di assuefarsi alla violenza.
Il richiamo ai numeri e alle statistiche è, da una parte, il tentativo di riconoscere una realtà esistente e drammatica, umanizzandola e arricchendola attraverso la condivisione di storie.
Dall’altra, diventa monito a non perdere una visione multidimensionale, a non trasformare le statistiche in un rumore di sottofondo.
A leggere le sfumature dei fatti, a non cadere nella trappola della ipersemplificazione, che priva le persone di una comune radice di umanità, creando una frattura insanabile e un baratro tra le loro esistenze, invece di avvicinarle e di renderle simili nei loro bisogni e nelle loro emozioni.
I nickname adottati sulla scena consentono di proteggere la propria sfera privata, la propria intimità .
Ma anche di mettersi in gioco in un ascolto privo di giudizio dell’altro da sé, senza che la propria prospettiva sia giocoforza condizionata dalle ferite personali o che qualcuno possa muovere strumentalmente quest’accusa, per sminuire e svalutare le idee di chi parla.
Il podcast diviene uno spazio virtuale condiviso, autentico e capace di arrivare al cuore delle persone e dei problemi, dove ci si fa una promessa reciproca: quella di incontrarsi in una stanza protetta, “in un luogo accogliente e unico, dove l’esperienza propria e altrui non verrà strumentalizzata”.
“Il nostro intento – continuano Sharon ed Ettore – era quello di lavorare sull’osso poetico, la voce è metafora veicolo allo stesso tempo, carnale ma non visivo, è quello che resta della persona, del suo ricordo, la parte più intima, e’ lo strumento che permette di essere insieme con altri e di comunicare l’atto della parola o la parola che sta nell’atto”.
In questo modo il podcast – come ribadiscono le due attrici – diviene un moltiplicatore di voci, in grado di arrivare alle coscienze come una stilettata, molto più immediato rispetto all’immagine che nel tempo ha perso la sua originaria immediatezza, divenendo sterile strumento di saturazione e di assuefazione.
L’invito rivolto al pubblico di intervenire e di raccontarsi crea, paradossalmente, un effetto di spiazzamento. Un “moto trattenuto, un vuoto e un’assenza di condivisione“.
Questo progetto teatrale sta già avendo delle ulteriori evoluzioni perché tutti i protagonisti – il regista Ettore Nigro, la drammaturga Sharon Amato e le due interpreti, Clara e Anna Bocchino – stanno realizzando un vero podcast da diffondere su Spotify, dove la voce – e l’ascolto in modo complementare – siano i veri protagonisti.
Le storie verranno raccontate nella loro essenzialità, nude e crude, senza sovrastrutture e senza mediazioni. Senza l’intervento dei cosiddetti esperti afferenti a varie discipline.
” In questo modo – ribadiscono Clara e Anna – ognuno potrà riconoscere nella storia della persona della porta accanto, una persona qualunque e ‘normale’, la proiezione di sé, di un frammento della propria storia, sentendosi meno soli, isolati e strani”.
Siateci.
Ph. Simona Pasquale
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