La risposta di Ofelia: Viola Di Caprio racconta la sua eroina tragica al Tram di Port’Alba
Il Tram di Port’Alba continua la sua programmazione di elevata qualità e spessore.
Questa volta è di scena Ofelia (La risposta di Ofelia), il personaggio shakespeariano più improntato alla purezza.
Un personaggio candido che non riesce a concepire gli intrighi, la menzogna e le congiure di palazzo, ma che non comprende nemmeno la pazzia di cui è vittima il suo amato. Tutti strali che colpiscono il suo cuore tenero ed esposto, come un ranuncolo, simbolo di bellezza caduca, ma anche di infantilità; o la violetta, che traghetta il pensiero verso una persona in maniera dolce, anche se si tratta di una dolce intensità passeggera, effimera. O ancora il tremulo e delicato gelsomino. E il variopinto ciclamino, destinato ad annegare in un mare di lacrime. Quelle del lutto per chi non c’è più e del rimpianto per ciò che poteva essere. E poi ci sono le orchidee. Algide e distaccate nella loro bellezza e coriacee alla morte, tant’è vero che hanno un’esistenza terrena molto più lunga di quella degli altri fiori, in maniera quasi innaturale.
“Ofelia non riesce a capire quello che succede intorno a lei – spiega Viola Di Caprio, autrice, regista e interprete – e forse non può. Ho stravolto molto il testo originale, ma non mi sono sentita di forzarlo così tanto da far fare definitivamente a Ofelia un salto di consapevolezza. La mia non è una denuncia contro il maschilismo”.
Ofelia vive quasi prigioniera nella sua stanza. Ha voglia di capire e di scoprire e si interroga, ma al contempo ha paura di proiettarsi nel mondo, nonostante il mondo a tratti la reclami, attraverso il richiamo di suo padre Polonio e di varie istanze che si agitano intorno a lei.
Ha voglia di capire Ofelia: infatti l’autrice la rappresenta come una speleologa, armata di un casco con luce per sondare il buio e disvelare le forme che vi sono nascoste. E come un’alpinista, dato che si muove attaccata a una corda per orientarsi. Ma quella stessa corda diviene anche legaccio che le ostacola i movimenti e le impedisce di allontanarsi verso l’ignoto.
Tutti, a partire dal fratello Laerte, le dicono come deve vivere e la ammoniscono sui rischi di un pensiero divergente.
E poi c’é l’anima ultraterrena di sua madre, che assume le sembianze di una fata. E la ridanciana, a tratti volgare, regina Gertrude, che la invita a vivere la carnalità senza sensi di colpa. Questi personaggi se da una parte sono dipinti come anime in bilico tra questo e l’altro mondo, che giocano a dadi con il destino dei mortali; dall’altra sembrerebbero rappresentare i vari moti conflittuali che si agitano nell’anima della stessa Ofelia, spingendola a essere più concreta e intraprendente, godendo della vita “a carrettate”.
Ma Ofelia non può . Più ancora… non sa come fare. Perché assecondare una di queste istanze equivarrebbe a tradire se stessa.
“Ofelia – continua l’autrice, che in un coraggioso alternarsi di timbri e stili interpreta tutti i personaggi – è sotto scacco. Non può fare alcuna mossa. Il suo sogno d’amore con Amleto si è infranto e lei nemmeno sa il perché. Non conosce quello che sta accadendo al di fuori della sua stanza. Non sa della pazzia che ha colto il principe né dei presupposti che l’hanno generata. A quel punto può compiere solo la scelta di uccidersi, sottraendosi a un universo che le è alieno e ostile”.
In un momento di altissimo romanticismo, inteso nel suo senso più puro come contrasto tra quello che si è e quello che si vorrebbe essere (e vivere) il principe di Danimarca e la giovane si incontrano di nuovo. Lui si introduce furtivo di notte nella di lei stanza e le si presenta discinto. Quasi nudo e, soprattutto, privo dei simboli del potere. Solo un uomo, fragile, afflitto e disperato. Ofelia sa che dovrebbe cacciare un uomo che si presenta nelle sue stanze quasi nudo – suo fratello l’ha allertata con parole aspre e ammonitrici – ma ella intuisce la sua profonda disperazione e, al pari della greca Antigone, decide di seguire la legge degli dei e non degli uomini, e gli offre un giaciglio e una consolazione sul suo grembo. Una pietà dolente colma d’amore la loro.
Ma la condivisione, quasi sospesa nel tempo e nello spazio, dura poco: Amleto si alza e si dirige fuori della porta, da cui già si intravede uno spiraglio di luce. Non volta la testa, non la guarda più: forse perchè se la guardasse negli occhi non riuscirebbe più a staccarsene; o forse perchè ha lo sguardo rivolto verso i suoi doveri di figlio, ormai richiamato verso l’esterno, di cui giungono le eco. Perso nella ricerca ossessiva della verità e della vendetta.
Viola Di Caprio affida a Ofelia il monologo simbolo della tragedia shakespeariana, di grandissima forza e impatto. È lei che si chiede se si debba essere o non essere. Se sia meglio sopportare l’avverso destino o combattere per cambiarlo, esponendosi al fallimento. Morire o dormire… Sognare.. Estraniandosi da una realtà dura e immaginandone una onirica migliore, più a nostra misura.
Così Ofelia sale su un albero, per sottrarsi al mondo che le sta facendo perdere la ragione con i suoi intrighi oscuri, ma il ramo cui ha appeso le ghirlande degli amati fiori, unici suoi amici, cede e lei cade in acqua, fluttuando come una sirena e come Partenope intona melodie incantatrici, mentre le vesti, ormai zuppe d’acqua, la trascinano a fondo. Per la regista, invece, Ofelia sceglie, finalmente autodeterminandosi, di sottrarsi a una realtà che non riconosce e che non la riconosce come possibile protagonista del suo destino. E con questo la vera tragedia è compiuta.