Andromachia: il monologo rancoroso di una donna vittima di un destino già scritto
Tornerà in scena a breve, alle 18:00, al teatro Tram di Port’Alba, Androma(chi)a per la regia di Armando Rotondi e Valeria Impagliazzo, che ne è anche interprete.
Lo spettacolo nasce dall’incontro tra una dimensione squisitamente territoriale, grazie agli arredi di scena, gli oggetti-scultura firmati da Ruben D’Agostino, e alle musiche originali opera di Marcello Vitale, due artisti partenopei; e una internazionale, merito della guida sapiente di due dramaturg: Lea Marks – che è anche artist coach – e Martin Lewton dell’Istituto delle Arti di Barcellona, che hanno contribuito a conferire una peculiare direzione all’opera, come sottolinea Valeria, grazie al loro sguardo esterno.
Una regia, che si rivela a quattro mani, dove è profuso molto impegno nella scrittura scenica e nella partizione fisica dello spettacolo, che si amalgamano con una serie di ragionamenti multipli e di costruzioni simboliche per immagini.
Andromaca racconta la sua storia, che è una concatenazione di subalternità e risulta fatalmente già scritta, così come è già segnato il destino di chi la circonda e che le è caro.
Il fato di suo marito, che ha privilegiato la ragion di Stato rispetto a una dimensione più intima e familiare. Quello di suo figlio, che verrà sacrificato. Quello di lei stessa, che diverrà schiava sessuale di Neottolemo
Lei parrebbe accettare questa condizione, frutto della rassegnazione di chi ha già perso tutta la sua famiglia, ma non può non covare rancore, che si trasforma in desiderio di vendetta.
Armando Rotondi nella sua riscrittura prende le mosse da un personaggio del mito precisamente situato, che affonda le radici in un ricco substrato letterario, da Omero a Muller, passando per Euripide. Questa rivisitazione originale è ispirata a un libro – scritto dallo stesso Rotondi – La trilogia del rancore.
Andromaca ristagna in questo rancore, in una battaglia interiore che la imprigiona in un loop, in un limbo, in un eterno presente cristallizzato e ripiegato su sè stesso. E’ letteralmente costretta a sopravvivere e rivive sempre la stessa scena.
Questo clima immobile è enfatizzato dal ricorso a pochi oggetti di scena – come sottolinea la Impagliazzo – utilizzati in maniera compulsiva, fin quasi a consumarli, in un’ossessiva coazione a ripetere, senza via di uscita.
Quegli stessi oggetti, poi, divengono ideali interlocutori del suo monologo, in un’atmosfera allucinata e febbrile in bilico tra la dimensione dei vivi e quella dei morti.
Se – come ribadisce l’attrice e regista – il teatro ha sempre un ruolo politico e una funzione sociale, in questo caso i protagonisti scelgono di non indulgere in intenti apertamente didascalici, ma di consegnare l’opera al pubblico nella sua essenzialità, affidando alla visione dello spettatore, al suo percorso, alla sua peculiare sensibilità, in un rimando di risonanze esterne ed interne, qualunque possibile decondifica di senso e significato.