Maledette Feste: Isabella Pedicini ci riconcilia con le ricorrenze comandate
Il libro di Isabella Pedicini Maledette feste, edito Fazi, è stato presentato a Somma Vesuviana lo scorso 11 gennaio nell’ambito della rassegna Una somma di libri, realizzata dalla Cartolibromania di lmma Malva e dal giornale Cultura a Colori.
Maledette feste è un libro catartico, liberatorio e riconciliativo che si esprime attraverso la chiave della leggerezza teorizzata da Italo Calvino.
Un percorso narrativo che ci aiuta a riconciliarci con le nostre varie versioni di noi stessi, le nostre fasi identitarie, attraverso lo spazio e il tempo.
Quelli che sono definibili come i fantasmi del Natale passato e presente rappresentano rispettivamente l’idea che avevamo di noi in relazione alle nostre aspirazioni e, in un serrato confronto – talvolta amaro o agrodolce – quello che siamo diventati. Lo spirito del Natale futuro è connotato dall’incertezza esistenziale ed economica, con uno spiccato sentimento di estraneità e di sradicamento.
Talvolta appare stentato anche il rapporto con i luoghi d’origine che abbiamo lasciato per libera scelta o per necessità pratica ed economica.
E ambivalente è la relazione con le nostre famiglie d’origine, laddove ci ribelliamo alle aspettative di ruolo… È proprio in quel momento che si scatena il conflitto.
Durante le festività natalizie riemergono vecchie ruggini mai sopite e una sorta di competizione che mette a confronto i diversi rami familiari in un escalation di comparazione del livello di realizzazione e dello stile di vita dei differenti membri.
Isabella Pedicini riesce ad affrontare questi temi in maniera sempre ironica e così induce il lettore, in maniera sapiente, a continuare la lettura, senza avere la tentazione legittima di sottrarsi al pungolo e al confronto con temi così delicati.
In più, inserisce una serie di approfondimenti tematici, mai banali, su alcuni simboli del Natale, quale il presepe, l’albero agghindato, Santa Claus. Utilizza espedienti narrativi che rendono questi excursus facilmente memorizzabili e interessanti.
In controluce, intravediamo alcuni dei grandi nodi irrisolti, che attanagliano la vita delle donne di tutte le generazioni: la difficoltà di conciliare vita privata e ambito lavorativo; il doppio lavoro sovrapposto, peraltro non retribuito; gli stereotipi di genere; il costante conflitto tra quello che siamo e quello che gli altri si aspettano che noi dovremmo essere, ma anche con quello che noi stesse spesso vorremmo essere.
Le due protagoniste femminili – madre e figlia- a un certo si ribellano alle aspettative di ruolo.
Agata, la più giovane, decide di non cucinare con perizia, bensi di bruciare il sugo e, quando l’imperativo culinario si presenta alla sua porta, sceglie come guida un libro dotto, caratterizzato da parole auliche e desuete, come quello dell’Artusi.
La madre, Eugenia, si rende conto che probabilmente la solidità e autenticità di quelle radici familiari in cui confidava – proprie di una famiglia allargata e polinucleare – è fallace e irrecuperabile e sceglie di emanciparsi, attraverso un’amnesia, dimenticando tutti i simbolismi legati al Natale.
Lei ora è libera di essere una donna che non deve più pensare a truccarsi a vestirsi di tutto punto.
Per un momento può riposare e non vivere le festività come un ulteriore obbligo, una performance connotata da una serrata tabella di marcia: cose da fare; luoghi da visitare; amici e parenti da accogliere da salutare, con una tenuta d’ordinanza da rispettare; leccornie da cucinare, come la tradizione insegna, che verranno sottoposte a un duro giudizio ispettivo.
Quello della Pedicini è un invito a ritrovare un tempo vuoto, dove sia possibile digerire i pensieri e ritagliarsi un’autentica pausa ristoratrice.
Ricordiamoci, infatti, che è proprio nell’otium che è nata la filosofia e la possibilità di sviluppare e di nutrire il senso critico.
L’autrice ci mette davanti a queste due donne e alle loro verità, mentre tessono la trama di un dialogo intergenerazionale. Agata capisce che è arrivato il momento di un passaggio di consegne definitivo – la madre è in un momento di estrema fragilità e di assenza simbolica temporanea – e quindi tocca a lei prendersi cura della famiglia attraverso la cucina, proprio in virtù di quell’affetto profondo che ne lega i vari componenti
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Eugenia – al pari della donna tarantolata dell’antropologo Ernesto De Martino, che grazie al morso della tarantola può finalmente abbandonare una remissività coatta e danzare senza freni, esprimendo i mille colori delle sue emozioni – trova nella sua amnesia temporanea, il modo per affrancarsi dall’idea che persino lei ha di sè stessa. In questa parabola narrativa, assistiamo anche a un dialogo tra luoghi fisici ed emotivi.
Da una parte, un paese di collina, una piccola comunità sempre uguale a sè stessa, relativamente isolata a causa della neve. Dall’altra la grande città, la metropoli, con i suoi ritmi incalzanti.
Ci sono realtà con valenze e significati duplici e contrapposti. Il Vesuvio, nume tutelare e potenziale sterminatore; il mare, culla della vita, di fronte al quale ogni affanno si acquieta, ma anche potenza schiumante e rabbiosa che tutto travolge e inghiotte.
Una cartoleria storica: un luogo di svago e di cultura, che ha resistito all’erosione del tempo (e che pure ne segna fedelmente lo scorrere, laddove le stagioni e il meteo impazziti per il cambiamento climatico non sono più attendibili). Un luogo resiliente anche rispetto alla concorrenza spietata degli shop online, dove trovare oggetti, piccoli tesori custodi della memoria, persone e consigli rassicuranti, baluardo di certezze ormai tramontate altrove. Quello stesso luogo, però, è anche centro propulsivo di un calendario di scadenze commerciali e capitalistiche.
Alla fine Agata riuscirà a trovare il modo di conciliare e riconciliare le sue diverse identità in un nucleo unitario, quella di madre, figlia, sorella e moglie.
Ricondurrà ad armonia il luogo d’origine – un paesino del beneventano dove molti abitanti la fanno ormai sentire estranea, perché è colei che torna di rado e sempre con una data di scadenza a breve termine – e la città d’adozione, Napoli.
Attorno a queste figure muliebri ruotano una serie di figure maschili che si muove all’insegna dell’amore: il marito di Agata, Bertrand, il reale mediatore in ogni situazione critica; il fratello Lorenzo – un empatico che si nasconde dietro la cortina del cinismo – e il padre, pedantemente logorroico, ma anche tenero e protettivo.
Assieme a loro, Agata riuscirà anche a ritrovare il senso più autentico delle feste, condivise in un’atmosfera intima e nostalgica. Quell’intimitá propria di chi apre le porte del proprio mondo solo a chi gli è simile e complementare, che siano familiari o estranei, e che in virtù di una scelta reciproca diventano – come avrebbe detto il filosofo Aldo Masullo – degli intranei.
Feste autentiche che, pur nella consapevolezza delle responsabilità e dei pesi che caratterizzano l’età adulta, in cui ci sono sempre più le sedie vuote e amarezze da digerire, possono legittimamente essere gioiose anche da adulti e non solo da bambini.