HOMETEATRO

Mettici la mano: al Sannazaro si rinnova la bellezza di una storia di autentica umanità

Tutti conoscono la canzone SoBammenella ‘e copp’ ‘e quartiere, il capolavoro di Raffaele Viviani, un crudo spaccato della vita di una prostituta nella Napoli popolare, quella della povertà e della disperazione.

Un essere umano che è costretto a subire le angherie dell’uomo che lei crede di amare e che ritiene che la ami.
Ma questo amore non è tale, bensì si rivela uno strumento di sopraffazione violenta e di sfruttamento.

Proprio a questa canzone Maurizio De Giovanni ispira il personaggio di Bambinella, uno dei coprotagonisti del ciclo narrativo dedicato al commissario Ricciardi.

Bambinella – cui dà le fattezze Adriano Falivene – torna in scena assieme al brigadiere Raffaele Maione, interpretato da Antonio Milo, e a Melina – una giovanissima Elisabetta Mirra – una ragazza, quasi una bambina, che l’uomo in divisa vuole portare in prigione a causa delle presunte nefandezze che ha compiuto a palazzo Roccafusca.

Nello spettacolo Mettici la mano, che torna con successo al teatro Sannazaro, a dover pensare a mettere a posto le cose – collegando opportunamente i fatti e riportando la speranza – è la Madonna Immacolata, una statua sopravvissuta al crollo rovinoso di una chiesa, dovuto ai bombardamenti.

È ora custodita in una cantina polverosa, oggetto di devozione e suppliche da parte dei fedeli. E’ proprio qui che i tre si ritrovano, quali improbabili compagni di sventure.

La rappresentazione ha, tra i tanti meriti, quello di far rivivere la cultura del vicolo, grazie all’interpretazione piena di cuore e di intensità di attori di diverso corso, che sul palco confermano il loro affiatamento e riescono a coinvolgere pienamente il pubblico, alternando il riso a momenti di riflessione e di commozione empatica.

La storia viene via via ricostruita attraverso le vicende di questi tre figli del popolo, con destini diversi e complementari.

Maurizio De Giovanni, attraverso la regia vincente di Alessandro d’Alatri, riesce a indurre le persone a fermarsi a pensare alle dinamiche del potere, che si ripetono sempre identiche sotto la superficie; alle odiose ingiustizie che, ieri come oggi, attraversano la compagine sociale e a far respirare un sentimento di reale umanità, condivisione ed empatia.

Ritroviamo Raffaele Maione, ligio al senso del dovere, apparentemente burbero, ma molto umano e la sua genuina amicizia con Bambinella, che vende il suo corpo per sopravvivere, cercando di riscattare il suo dolore raccontando di essere la più bella dei Quartieri.

Ad accomunarla alla giovane Melina è un passato e un presente di solitudine, visto che entrambe sono rimaste prive della protezione materna troppo presto, lasciate alle intemperie della vita e alle vessazioni di persone conviventi con comportamenti ferocemente oscuri, celati dietro la patina del perbenismo, dato che “chi cresce senza padre va incontro a un destino tragico“.

Loro padre putativo diviene Maione.

Padre, in cui qualche modo, di Bambinella – che sintetizza in sè sia suo figlio Luca, prematuramente scomparso, sia le due figlie che lui cerca di proteggere dalle brutture del mondo – di cui l’uomo è sinceramente amico.

E genitore anche di Melina, nel momento in cui entra davvero con l’anima nella sua vicenda, abbandonando il cappello della legge per indossare quello della giustizia, dato che questi due processi non sempre coincidono.

In queste dolorose vicende – che pure talvolta muovono il riso – sembra di vedere echeggiare il dilemma antigoniano che vede contrapporsi la legge degli uomimi – che non vuole sapere davvero come stiano le cose e si limita ad accettare acriticamente le apparenze – e l’onnisciente giustizia divina.

Pare di risentire la supplica alla Madonna delle Rose di Filumena Marturano, in cui viene ribadito che i figli sono figli sempre, quale che sia la modalità della loro nascita e la loro identità.

Attraverso l’intensa interpretazione dei protagonisti, i dialoghi messi in scena e i frammenti del mondo esterno che trapelano attraverso la porta lignea e i muri della cantina scossa dal boato dei bombardamenti – forieri di altrettante prese di consapevolezza – lo spettatore può assistere all’inesorabile sgretolarsi di quella cultura del Vicolo che fino a quel momento aveva contraddistinto Napoli.

Una cultura fatta di autentica condivisione – pur nella povertà e nelle difficoltà quotidiane – di empatia e di inclusività, dove le persone di differente orientamento sessuale erano rispettate – come sottolinea Bambinella stessa – e avevano un posto speciale, perché ritenute custodi di una dimensione intermedia tra l’umano e il divino, capaci di andare oltre le apparenze e di capire e il senso più autentico delle cose, amorevoli balie dei figli altrui, laddove sia la madre sia il padre non potessero occuparsene.

La voce imperiosa e stridula dei soldati tedeschi fa irrompere sulla scena un potere illegittimo, viatico di una violenza cieca che cerca soltanto una scusa fittizia nelle ragioni della guerra, per infliggere impunemente dolore e disperazione.

Attraverso la loro presenza, vediamo in controluce farsi strada e affermarsi una subcultura del pregiudizio, dello stereotipo, della vessazione e della segregazione.

Ci si emoziona dall’inizio alla fine. I personaggi di De Giovanni si incarnano grazie alla maestria degli attori e si relazionano tra di loro attraverso la spledida regia di D’alatri.

L’atmosfera si carica di ulteriore intensità grazie alle musiche originali di Marco Zurzolo.

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