In nome della madre: al Pozzo e il Pendolo la vicenda umana di Miriàm
Il teatro Il pozzo e il pendolo è stata una vera scoperta. Ubicato al civico 3 di Piazza San Domenico Maggiore, in un palazzo antico e suggestivo, permette di accedere a una sorta di anticamera, dove sono posizionati, ad arte, tavolini – sorretti da pile di libri – e accoglienti poltroncine rosse.
LA LOCATION
Qui è possibile attendere l’inizio dello spettacolo, gustando delle stuzzicherie tipiche partenopee e del buon vino, offerti dai padroni di casa, ascoltando in sottofondo della musica che rinvia alle radici territoriali e culturali della città delle Sirene, per esempio i canti dei briganti.
L’arredo è molto particolare: tra libri, impermeabili, candelabri, mobili e macchine da scrivere, racconta innumerevoli storie e attraversa varie epoche. L’associazione Il pozzo e il pendolo ha compiuto la scelta strategica di mettere in scena narrazioni tratte da piccoli, grandi romanzi: da L’amico ritrovato a La meccanica del cuore.
LA RAPPRESENTAZIONE
La storia messa in scena, per la regia di Annamaria Russo – che tornerà a essere rappresentata satasera, domenica 28 gennaio alle 18:00 – è quella di Maria/Miriàm e del suo amore per Josef e per Yeshu’a.
In tal senso, il racconto della tradizione è molto lacunoso, tale da diventare una stereotipata ripetizione, ma Erri De Luca restituisce a Miriàm il senso di un’identità autentica – quello di una donna coraggiosa e anticonformista in grado di andare contro i luoghi e il senso comune per amore del suo bambino e dell’uomo che si muove a protezione di lei e del nascituro.
Le maldicenze, i pettegolezzi e il crescente isolamento cui la coppia è sottoposta, invece di fiaccare l’unione la rafforzano, dopo un iniziale cedimento di Giuseppe, confessato solo molto dopo. La fanciulla cammina in mezzo agli improperi e agli sputi, ricambiando con levità le “benedizioni” ricevute. L’uomo, allontanato dalla bottega in cui era primio inserviente, con sacrificio ne apre una sua, dove costruisce con impegno e ingegno vari strumenti agricoli di cui i compaesani hanno bisogno per lavorare la terra. I due innamorati costruiscono così il loro micromondo e piano piano la diffidenza che aleggia intorno a loro si scioglie. Si badi bene: non per reale accettazione, bensì per superficiale convenienza.
Miriàm è una persona piena di grazia in un mondo ottuso e ostile, capace di lottare anche in solitaria. Animata da autentica empatia, sa accettare la sua storia e il suo destino. Ma sa anche combattere per cambiarlo, per quanto possibile.
Le donne maldicenti ricordano quelle del romanzo La lettera scarlatta e della canzone Bocca di Rosa. Il destino e il coraggio di Miriàm richiamano, per molti versi, quelli della pittrice Artemisia Gentileschi,
L’intenso monologo di Rosalba Di Girolamo – che sa farsi dialogo sulle note malinconiche e struggenti della fisarmonica di Rocco Zaccagnino – ripercorre non soltanto il momento dell’annuncio e poi l’evolversi della gravidanza, al ritmo delle stagioni, dalla mietitura al tempo delle olive, ma anche le anticipazioni dell’estremo sacrificio, che viene rappresentato attraverso la tavola apparecchiata dove c’è il pane da spezzare e il vino, quale calice amaro, da bere. L’evidente richiamo è all’ultima cena.
Miriàm, innamorata di Josef, riceve dall’Angelo – uno straniero dalle sembianze umane, che la saluta con parole di pace – l’annuncio della sua imminente maternità e viene fecondata da un vento caldo, che reca con sè la polvere delle stelle.
Nel momento in cui partorisce da sola suo figlio, intesse anche una conversazione con il Padre Celeste, in cui anticipa anche il destino di esclusione cui andrà incontro l’amato bambino. Figlio di un vento caldo e sabbioso, nel corso della sua vita si troverà intorno il deserto a causa delle sue idee rivoluzionarie. La società dominante lo isolerà – come già aveva fatto con i suoi genitori – fino a condannarlo a morte.
Al Dio dei cieli Miriàm chiederà che suo figlio non salga agli onori della storia; che non diventi qualcuno di importante; che sia anche poco intelligente, ma che gli venga lasciata la possibilità di vivere.
Lei, però, in fondo sa che questo non è possibile e quindi alla fine riuscirà a contrattare solo una manciata di anni in più.
Otterrà, nel corso di questo dialogo per voce sola, di poter educare il proprio bambino, per poi lasciarlo andare a compiere la missione cui è chiamato.
In questo monologo si sente forte anche il richiamo alle guerre e agli eccidi attuali. Il popolo ebraico odiava piú degli altri quello romano, che lo spremeva fino all’osso per esigere tasse inique.
Un dominatore spietato, che lo aveva schiacciato, lasciandogli appena la possibilità di respirare a fatica, sotto il suo giogo. Chi si ribellava veniva punito con la crocifissione e, quindi, con l’esposizione del corpo nudo e inerme.
Maria a un certo punto ne parla disperata, guardando la terra arrossata dal sangue dei giovani ebrei morti. Stille rosse che neanche la neve riesce a coprire.
Anche in questo snodo narrativo viene anticipata la morte del figlio innocente, offerto come un agnello sacrificale, come il pane fresco e fragrante che si porta al tempio. Non a caso, l’infante nasce nella città del pane, Betlemme.
Rosalba Di Girolamo dà le fattezze, la voce e la carnalità a Miriàm – protagonista di questo processo di umanizzazione della coppia genitoriale – con un’intensità capace di commuovere, tenendo alto per oltre 60 minuti Il ritmo e incatenando letteralmente l’attenzione e il cuore degli spettatori.
Rocco Zaccagnino la accompagna con grande pathos, tradotto in note. È di rara poesia la scena in cui entrambi condividono – quali compagni di scena, ma anche come esseri umani assoggettati a un comune destino di fragilità e di vessazione – il pane spezzato.
Lavoro di grande spessore. Emozione pura che l’attrice Rosalba DI Girolamo riesce a trasmettere magnificamente. Un fluire nell’anima in una visione di estrema umanità. Maria, donna madre moglie compagna. Lavoro estremamente moderno.